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Uragani sì, uragani no

Autore: Guido Guidi from www.climatemonitor.it
21/10/2012 (letto 2981 volte)

Sono di più o di meno i cicloni tropicali? Sono più intensi o meno intensi? E, infine, sono effettivamente mutate la frequenza di occorrenza e l’intensità di questi eventi?

 

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Sono di più o di meno i cicloni tropicali? Sono più intensi o meno intensi? E, infine, sono effettivamente mutate la frequenza di occorrenza e l’intensità di questi eventi?
Domande da molto più di un milione di dollari, cui per ora la scienza non è stata ancora in grado di rispondere in modo definitivo. Nel report IPCC sul rischio da eventi estremi il discorso è chiaro, anche se purtroppo non soddisfacente in termini di conoscenza: allo stato attuale non sono identificabili trend statisticamente significativi né per la frequenza né per l’intensità dei cicloni tropicali; allo stesso tempo, tuttavia, le simulazioni climatiche prospettano che la frequenza di occorrenza sia stazionaria o diminuisca lievemente e che l’intensità aumenti. Siamo quindi di fronte al classico approccio IPCC: le osservazioni, pur in presenza di grande incertezza, non dovrebbero indurre preoccupazione, le proiezioni invece sì.
La ricerca sull’argomento naturalmente continua. Appena qualche giorno fa abbiamo ricordato il paper di Roger Pielke Junior che analizzando i dati normalizzati dei danni indotti dall’arrivo dei cicloni tropicali sulla terraferma, ipotizza una sostanziale assenza di trend.
Oggi sottoponiamo all’attenzione dei lettori altri due lavori su questo argomento, lavori che giungono a risultati di segno opposto.
Il primo: Homogeneous record of Atlantic hurricane surge threat since 1923 - qui il comunicato stampa dell’Università di Copehagen e qui l’abstract sui PNAS.
Il secondo: Decreasing trend of tropical cyclone frequency in 228-year high-resolution AGCM simulations qui il pdf.

Ma c’è un trucco. Le conclusioni cui giungono i due paper non sono solo diverse, sono le classiche mele con le pere. Vediamo perché.
Nel primo paper si giunge alla decisione di considerare aumentati nel periodo di riferimento (1923-2011) i cicloni tropicali sulla base di dati di prossimità, cioè comunque di parenti più o meno prossimi delle osservazioni. Si tratta di rapide variazioni del livello del mare sulle zone costiere, chiaramente influenzato dall’arrivo dei cicloni tropicali. I dati dunque sono comunque riferiti esclusivamente agli eventi che hanno raggiunto la terraferma negli USA e nella zona caraibica, che costituiscono una percentuale piuttosto limitata rispetto alla totalità. Ad ogni modo, confrontando il numero degli eventi ‘osservati’ a partire dal 1923 con il comportamento delle temperature, gli autori hanno stabilito che la probabilità che un evento si verifichi durante anni più caldi è doppia rispetto a quelli più freddi. Al riguardo c’è da fare un altro caveat: gli USA stanno vivendo il periodo più lungo della loro storia moderna senza vedere uragani di categoria 3 o superiore sulle loro loro coste; il discorso potrebbe essere esteso anche agli eventi di categoria inferiore perchè i pochi eventi degli ultimi anni erano comunque di categoria 1, la più bassa e anche quella ritenuta meno affetta dall’aumento delle temperature secondo l’analisi condotta in questo studio. E’ però cosa nota che gli ultimi anni siano stati i più caldi dei tempi moderni. Non facciamo classifiche ma è un fatto che 8 dei 10 anni più caldi di sempre (in termini di temperatura media globale, quella usata in questo paper), siano arrivati nell’ultima decade. Eppure, a parte Katrina (categoria 3 al momento dell’impatto con la costa), il termine di riferimento usato in questo paper è del tutto inservibile. Anzi, in teoria, pur in un breve e scarsamente significativo periodo, pare si vada nella direzione opposta a quella indicata: più caldo, meno uragani sulle coste. Strano? Non tanto, ma solo perché l’atterraggio dei Cicloni Tropicali sulla terraferma è praticamente una cabala, per cui impiegarne i dati forse non restituisce risultati abbastanza robusti.
Nel secondo paper non va molto meglio. Il titolo per certi aspetti è fuorviante, sebbene il rebus venga chiarito subito: si tratta di un lavoro puramente modellistico, non si fa alcun confronto con le osservazioni. Anzi, alla fine del paper gli autori scrivono che tale confronto è assolutamente necessario per testare la validità dei loro risultati. Tra l’altro il risultato rappresenterebbe comunque un trend calcolato su un periodo molto più lungo di quello del paper precedente (228 anni a ritroso dal 1999). Le performance dei modelli climatici le conosciamo, benché quelli qui utilizzati siano ad alta risoluzione (in senso climatico, cioè 60km), lo skill a scala regionale di questi sistemi è veramente molto basso, ove non addirittura inesistente. Tuttavia, in assenza di confronto con le osservazioni ogni giudizio potrebbe apparire speculativo.
La mia impressione, ma vi invito ad esprimere le vostre, è che non si sia aggiunto molto all’incertezza che su questo argomento è ormai certificata.
Purtroppo il primo paper è a pagamento, per cui se volete approfondire occorre metter mano al portafogli. Buona lettura.

Guido guidi

www.climatemonitor.it

 

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